Discriminazioni, legge a senso unico

Poteva andare peggio, ma non è andata bene. Da sabato scorso, anche l’Emilia Romagna ha una legge “contro le discriminazioni e le violenze determinate dell’orientamento sessuale” approvata dopo 40 ore di aula (per gli oltre 1700 emendamenti presentati dalle opposizioni) con i voti favorevoli di PD, Sinistra italiana e Silvia Prodi (Misto), i 5 Stelle e Gian Luca Sassi (Misto), e quello contrario di Lega, Fdi e Fi. Il concetto di “autodeterminazione” del proprio orientamento sessuale è uno degli aspetti più problematici del nuovo testo di legge, assieme al tema della formazione nelle scuole e alla libertà di espressione per chi dissente dalla cultura dominante e dalla “dottrina sulla famiglia” targata Lgbt. Aspetti che proviamo ad analizzare nello specifico, nel tentativo di andare oltre aspetti ideologici e le affermazioni propagandistiche che nei giorni scorsi hanno preso gran parte dello spazio mediatico.
No all’utero in affitto. Con gli emendamenti passati in commissione dell’11 luglio scorso, grazie al contributo dell’ala cattolica del Pd che ha recepito alcune delle osservazioni presentate in aprile dal Forum Famiglie, dalla Papa Giovanni XXIII e da alcune sigle del mondo femminista, è stato sancito un importante no all’utero in affitto, col conseguente blocco a contributi ad associazioni che “realizzano, organizzano o pubblicizzano la surrogazione di maternità”. Impianto ideologico. Restano non poche criticità che hanno tutte a che fare con la compressione delle possibilità di esprimere dissenso rispetto alla retorica Lgbt. In generale, sono stati tolti termini e riferimenti esplicitamente liberticidi (uno tra il riferimento all’”omotransnegatività”, sostituita con esplicita omofobia) ma resta l’impianto della legge che sposa un’istanza culturale e ideologica sopra a le altre, e punta a diffonderla. Ambiguità pro-gender. Il testo presenta così varie ambiguità, nelle quali la diffusione delle teorie gender, anche nelle scuole, trova un’autostrada con corsia preferenziale. L’articolo 2, ad esempio, cita il “diritto all’autodeterminazione” in riferimento all’identità e all’orientamento sessuale che, come rileva Moia su Avvenire, risulta “ideologico” a partire dalla rivendicazione delle stesse persone omosessuali di rispetto e dignità sulla base di una “condizione strutturale e costitutiva della persona”, altro che “autodeterminabile”. Ancora, all’articolo 3 si parla solo di “attività di formazione e aggiornamento del personale docente diretta a favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo, cyberbullismo motivato dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. Con che tipo di contenuti, si tenterà di “superare gli stereotipi discriminatori” la legge non lo specifica; in compenso, prevede finanziamenti per le associazioni Lgbt per la formazione e l’informazione su questi temi. Così come piuttosto vaga appare la definizione di “stereotipi discriminatori”: sarà ancora possibile ad esempio sostenere che per il corretto e armonico sviluppo psicologico del bambino la differenza di genere dei genitori è un dato auspicabile, può configurarsi come pregiudizio lesivo? A senso unico. In vari articoli della nuova legge (2, 3, 5, 8) si fa riferimento a politiche attive di formazione, informazione, si potrebbe dire anche “inculturazione” in tutti gli ambiti dei rapporti sociali: il lavoro, la scuola, lo sport, la sanità, l’assistenza, le telecomunicazioni. Difficile non prevedere che, oltre all’opportuna lotta alla discriminazione, questi spazi diventino canali di propaganda per l’ideologia gender, di fatto squalificando il ruolo dell’ente pubblico come garante del pluralismo del pensiero su questi temi. Il rischio è che il testo approvato sabato vada oltre, colpendo non solo e non tanto chi discrimina omosessuali e transessuali ma anche chi non la pensa secondo l’ideologia gender.

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Daniela Verlicchi

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