Potere mediatico versus potere politico. Da una parte il giornalista britannico David Frost, dall’altra il presidente – ormai ex – degli Stati Uniti Richard Nixon. Nell’aria, come uno spettro, aleggia lo scandalo Watergate.
Lo spettacolo teatrale Frost/Nixon, che aprirà la stagione di prosa 2014-2015 all’Ebe Stignani, racconta proprio questo. Il faccia a faccia tra il giornalista e il presidente, le interviste realizzate da Frost con lo scopo di far confessare a Nixon il proprio coinvolgimento nella vicenda di intercettazioni abusive all’interno del quartier generale del Comitato nazionale democratico. Obiettivo che il giornalista riuscì a portare a termine.
Siamo negli anni ’70 e quello è il primo caso di giornalismo-spettacolo. Dove più che l’ammissione della colpa, conta «la faccia della colpa», come spiega Ferdinando Bruni, impegnato in questo spettacolo in doppia veste di regista e attore insieme a Elio De Capitani. La pièce, scritta da Peter Morgan e tradotta da Lucio De Capitani, nasce da una coproduzione di Teatro dell’Elfo (di cui Bruni e De Capitani fanno parte) e Teatro stabile dell’Umbria, e sarà a Imola dal 25 al 30 novembre.
Nonostante prenda spunto da una vicenda di quasi 40 anni fa, «i temi che tratta sono sempre attuali». Parola di Ferdinando Bruni. Che aggiunge: «La responsabilità anche etica di chi è in politica, il ruolo del giornalismo: sono o non sono questioni oggi più vive che mai?». Ed è proprio lui a raccontarci di questo spettacolo che «ha saputo portare sul palco la cronaca e trasformarla in una pièce che coinvolge il pubblico in maniera esemplare».
Il personaggio che lei interpreta, il giornalista David Frost, riesce, con molta abilità, a far ammettere al presidente Nixon di essere colpevole. Il suo è amore per la verità o solo desiderio di avere uno scoop che rilanci la sua carriera?
Diciamo che sono presenti entrambi gli aspetti. Inizialmente, certo, Frost è a caccia di scoop e il discorso di addio del presidente Nixon, seguito da migliaia di persone, lo induce a mettersi su quella pista. Capisce che potrebbe fruttargli la notizia delle notizie, una confessione che prima nessun altro era riuscito a ottenere. Così decide di mettere anima e corpo in quest’impresa. Si circonda di uno staff qualificato, investe tutti i suoi soldi – l’intervista costò due milioni di dollari -, fa ricerche accurate, si organizza in modo serio. Tanto che la preparazione all’intervista richiede due anni. Durante questo periodo, tra alti e bassi, l’atteggiamento di Frost inizia a cambiare. Prende coscienza del proprio ruolo e di quello del giornalismo, il suo scopo non è più solo riscattarsi con una grande notizia, ma anche quello di affermare l’etica della politica.
Ce lo descriva. Com’è questo Frost a cui lei ha dato vita?
È una persona seria, che pian piano prende consapevolezza del suo ruolo, che non assume mai atteggiamenti da moralista né da censore nei confronti di ciò di cui si occupa. E nonostante i momenti bui, non perde il suo amore per la vita e la capacità di godersela, insieme all’ottimismo, i tratti che apprezzo maggiormente in lui.
Dall’altra parte, invece, c’è il presidente Nixon, tutt’altra personalità…
Sì, il presidente è malinconico, diffidente, paranoico. Lui stesso dice di sé: «Io sono così, sono nato ferito e sospettoso». In quegli anni iniziava ad avere importanza l’immagine dei candidati politici. E Nixon riuscì a vincere le elezioni solo perché aveva a che fare con avversari mediocri. Se ci fosse stato Kennedy non avrebbe avuto scampo.
A dargli vita sul palco è Elio De Capitani, suo compagno di lavoro da moltissimi anni…
Sì, ed è sempre molto bello lavorare insieme, ormai c’è una grande sintonia. Il fatto che questo testo ci desse la possibilità di essere insieme sul palco è stato un altro dei motivi per cui l’abbiamo scelto.
Avete firmato in coppia anche la regia. Com’è lavorare a uno spettacolo a quattro mani?
Anche in questo campo ormai siamo una squadra rodata. Non abbiamo nemmeno più bisogno di accordarci o organizzarci: le cose vengono da sé. Ed è un po’ come se, in realtà, ci fosse un solo regista e non due. Mettiamo nei nostri spettacoli un’anima comune.
Lei ha alle spalle molta esperienza nel campo teatrale, sia come regista, sia come attore. Come sono cambiate le cose dai suoi inizi a oggi?
Negli anni ’70, quando ho cominciato io, c’era una situazione favorevole per la nascita di gruppi teatrali. Riaprivano molte strutture, anche nei piccoli paesi, e lo spazio non mancava. Oggi le cose sono più complicate. È sempre più difficile per i giovani conquistare un posto nel mondo del teatro. La crisi c’è, inutile negarlo. Ma non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono opportunità che ieri non c’erano e oggi invece sì. Le nostre prime performance noi dovevamo farle nei centri sociali. Oggi invece ci sono tanti piccoli teatri che creano rassegne ad hoc in cui danno spazio ai gruppi formati da giovani. Anche noi dell’Elfo, da quando a Milano abbiamo inaugurato un nuovo teatro, diamo spazio ai ragazzi che vogliono lavorare in questo mondo. C’è sempre molto fermento, molta vitalità. E questo non può che essere positivo.
Lei quando ha capito che il teatro sarebbe stato il suo lavoro?
Tutto è iniziato mentre frequentavo l’università a Milano. Ero iscritto a Storia dell’arte, ma c’erano alcuni esami sul teatro che hanno acceso in me questa passione. Successivamente mi sono iscritto al Piccolo teatro di Milano, al corso di regia. Lì ho conosciuto Gabriele Salvatores e poco dopo abbiamo messo in piedi il Teatro dell’Elfo. Mi sono fatto coinvolgere sempre più e, per una serie di fortunati casi, pochi mesi dopo ho iniziato a recitare e a curare la regia di alcuni spettacoli. Da allora, non ho più smesso.
Quando non è sul palco o dietro le quinte, cosa fa Ferdinando Bruni?
Vado a teatro, ma da spettatore. Imparo, prendo spunti, mi lascio ispirare. E appena mi è possibile volo in giro per l’Europa, soprattutto a Londra. Lì c’è una gran vivacità teatrale ed è bello respirare un’aria che in Italia non c’è. E, perché no, tentare di esportarla anche qua.