17, Luglio, 2025

Dionisio Dall’Osso, un imolese da ricordare

Avevano ragione gli antichi quando attribuivano al tempo la perversione del padre orco che mette al mondo i figli, poi li divora. Come dire, in termini espliciti, che tutto ciò che esiste è figlio del tempo, ma poi il padre distrugge quello che crea.
Il tempo, però, ha un altro difetto non meno grave. Sotto le apparenze della lentezza, scivola via con un passo inversamente proporzionale ai nostri desideri. Quando siamo piccoli, non arriva mai l’agognata età adulta; da anziani è sempre più ribelle ai colpi di freno, anzi accelera freneticamente.
Questa riflessione mi è venuta spontanea nei giorni scorsi, quando – prendendo in mano le lettere scritte da Luigi Orsini al suo “quasi figlio amatissimo” – mi sono accorto che sono incredibilmente passati dieci anni dalla morte del mio professore, Dionisio Dall’Osso. Il poeta Orsini vedeva in lui il discepolo più caro e provava nei suoi confronti un sentimento quasi paterno, lasciando così trasparire il rammarico di non essere padre (nella foto sopra Orsini è seduto sulla sinistra, mentre Dall’Osso è quello in piedi sulla destra).
Ebbene, devo confessare una sensazione quasi simmetrica: se ad Orsini mancava un figlio, a me faceva difetto il padre, che la guerra mi aveva portato via proprio sul finale. Così, negli anni della scuola, osservavo attentamente il professor Dionisio e gli mettevo addosso gli abiti paterni, che gli stavano a pennello, senza badare alla differenza tra i panni sdruciti del contadino e quelli impeccabili dell’insegnante. Per la verità lui stesso teneva verso tutti i suoi alunni un atteggiamento paterno, con qualche ritegno per le ragazze che trattava immancabilmente col “lei”, mentre coi maschietti – identificati globalmente come “reparto barba e baffi” – era molto più sciolto e si divertiva a fondere nome e cognome in un unico nomignolo. Così io ero Gambereppe, Evaristo Campomori era “Campomisto”, e così via.
Le sue lezioni si snodavano fra battute ironiche, giochi di parole, aneddoti curiosi, che alleggerivano l’atmosfera solitamente greve delle ore di scuola. Possedeva un corredo sconfinato di espedienti attentivi, tanto che ogni passaggio del programma aveva quasi incorporata la sua digressione, per meglio fissarlo nella memoria. Niente di più lontano dal modello tradizionale dell’insegnante che parla “ex chatedra”, con aria distaccata e indifferente. Era uno dei pochi docenti di scuola superiore che tenesse presenti le esigenze della didattica, consapevole che non basta conoscere la materia per saperla trasmettere.
Questo suo atteggiamento dimesso e bonario faceva facilmente dimenticare lo spessore culturale che possedeva e la qualità del suo sapere sconfinato. La sua passione erano le lingue antiche e moderne (greco, latino, tedesco, inglese soprattutto), il teatro, la musica e il melodramma, la letteratura italiana e straniera, classica e moderna. Non solo Luigi Orsini, ma anche autori famosi come Marino Moretti erano in corrispondenza con lui e ascoltavano i suoi suggerimenti.
Vennero gli anni della pensione e fu una perdita grande per la scuola, che cercò di utilizzare ancora la sua esperienza come presidente di commissione per il reclutamento di nuovi maestri o per missioni culturali in Italia e all’estero. La sua fine silenziosa, tra il Ferragosto e la festa del patrono San Cassiano, avvenne dieci anni fa, in un’Imola distratta e smemorata. Andai a fargli visita, negli ultimi giorni, e lo trovai con un libro in mano, ansioso di scoprire la radice etimologica di alcuni vocaboli. Insomma studiava ancora.
Adesso possiamo immaginarlo finalmente appagato nella sua sete di sapere, intento a conversare con il suo grande amico e maestro Luigi Orsini, gettando ogni tanto uno sguardo su Imola, cui ambedue hanno dato il tesoro della loro cultura. Ma gli Imolesi sono consapevoli di ciò che hanno ricevuto?
Giuseppe Gamberini
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