Innovare è un mantra in risposta alle sfide di cambiamento derivanti dalla crisi economica e dal senso di incertezza e di instabilità che pervade la società. La competitività dei mercati si è tradotta anche in competitività tra territori: tra sistemi che innovano, generano lavoro e crescono e sistemi che gradualmente sono destinati al graduale isolamento e all’abbandono. Gli indicatori che vengono presi in considerazione per osservare il grado di innovazione di un territorio sono il numero di brevetti, la capacità di export, il numero di start up, ecc., eventualmente rapportati alla popolazione presente. Ma è corretto dire che dove ci sono più start up c’è più lavoro e più capacità di crescita? Certamente, ma fuori da un sistema integrato che le sostenga può anche essere un dato interpretabile come indice di precarietà perché l’obiettivo finale di un sistema territoriale è favorire la stabilità nel tempo, parola oggi un po’ dissonante ma all’origine stessa della convenienza e dell’esistenza delle città. Wikipedia e la Treccani sono concordi: innovare vuol dire introdurre sistemi e criteri nuovi. Non implica cancellare l’esistente ma portarvi un contributo nuovo.
Industria 4.0, super e iper ammortamento, voucher per la digitalizzazione dei processi, credito di imposta e tanti altri sono strumenti disponibili per supportare l’investimento in innovazione delle imprese. La percezione generale è che si associ l’innovazione con l’adozione di nuove tecnologie saltando il passaggio che qualsiasi tecnologia, seppure “intelligente”, costituisce uno strumento che l’uomo deve utilizzare per un fine e quindi conoscere. Oggi non mancano le soluzioni tecnologie, sempre possono migliorare ed affinarsi certo, ma quello che manca è la capacità di vedere i bisogni e con creatività e idee utilizzare la tecnologia per costruire nuovi servizi che possano soddisfarli. Il paradosso è che a fronte di una crescita tecnica e informativa senza eguali nella storia avvenuta negli ultimi decenni, non sia corrisposta una crescita della capacità cognitiva di assimilazione. Oggi più che di tecnologie c’è bisogno di consapevolezza. Sono più che attuali le considerazioni di Guardini che affermava ad inizio del XX sec. “Non è la tecnica che va frenata, ma l’umanità a dover essere accresciuta, consentendo all’essere umano di essere sempre signore e non schiavo di ciò che realizza e produce. In un mondo sempre più complesso e competitivo, dove gli hub della ricerca industriale e sperimentale per il numero di risorse messe in campo sono lontani dall’Europa, dove la domanda di lavoro per alcune figure professionali non trova risposta, dove la disponibilità della ricerca supera la capacità di farla atterrare in contesti produttivi e lavorativi, occorre sempre più distinguersi. C’è bisogno di un sistema capace di rispondere a trecentosessanta gradi. E per non essere astratti si ricorda come nessuna grande evoluzione è nata a livello di isola ma di arcipelago, ovvero in relazione e facendo memoria del passato. C’è bisogno che le diverse realtà, espressioni particolari di segmenti della società produttiva, ripartano non da loro stessi, guardandosi allo specchio, ma focalizzando la loro origine maturino la consapevolezza che fuori dalla relazione e collaborazione con gli altri si perde anche la natura di sé stessi. In un sistema territoriale solo una crescita equilibrata e diffusa sarà anche sostenibile. Come ricorda il sociologo Richard Sennet anche la Manchester del carbone era all’avanguardia nell’800 per i criteri del tempo. In questo senso innovare e fare sistema deve anche ambire a traguardare la singola propria misura e per avere questo sguardo ci vogliono grandi obiettivi condivisi e una fiducia che non può basarsi solo dal cambiamento tecnologico.
Alessandro Seravalli (presidente Sis.Ter)