I due termini, spesso usati come sinonimi per indicare le modalità di rapporto con gli immigrati presenti stabilmente nel nostro territorio, in realtà hanno significati assai diversi ed anche tra loro parzialmente incompatibili. Se multiculturalismo significa attribuire pari dignità ad ogni e qualsivoglia modello culturale, questo è possibile sul piano del confronto intellettuale, filosofico o teologico, per cui idee e posizioni anche estremamente diverse possono essere utilmente confrontate, senza precomprensioni o rifiuti aprioristici. Ma se si passa dal piano teoretico a quello sociale reale, le cose cambiano. In tutte le nazioni e le comunità umane del mondo esiste un modello sociale prevalente, affermatosi per ragioni storiche, politiche e religiose, che determina le regole generali di riferimento. L’integrazione significa accettare, rispettare e osservare queste regole da parte degli immigrati, anche se confliggenti con loro usi, costumi, tradizioni e credenze. Se è giusto e doveroso concedere aiuto, protezione, godimento dei diritti, lo è altrettanto chiedere, anzi esigere, l’adesione ad alcuni comportamenti concreti: ad esempio la pari dignità di uomini e donne nell’accesso alla scuola, alla libertà di movimento e di abbigliamento; la possibilità di rifiutare matrimoni combinati, di praticare la religione da loro scelta; l’obbligo di conoscere la lingua italiana dopo un certo periodo di permanenza. Troppo spesso le timidità confuse con cui le istituzioni anche locali affrontano questi temi sottendono il ripudio dei fondamenti della civiltà occidentale che hanno radici recentissime nelle ideologie radicali e comuniste di cui i nostri ceti dirigenti si sono nutrite dal secondo dopoguerra, inducendoli ad esempio a relativizzare, comprimere ed emarginare il ruolo della religione cattolica nella vita sociale e la civiltà su cui l’Europa si fonda. Chi ha qualche decennio di vita ricorda bene come il primo sindaco a partecipare ufficialmente alla processione d’ingresso della Madonna del Piratello a Imola è stato Raffaello De Brasi nel 1992 (!); oppure l’insistenza con cui negli anni Ottanta si invitavano i genitori dei bambini iscritti alle scuole materne comunali a non avvalersi dell’ora di religione cattolica; oppure ancora l’aperta ostentazione di ateismo da parte di coloro che avevano per ruolo istituzionale la rappresentanza di tutta la comunità. Solo partendo dalla realtà si possono cambiare le cose, non ignorandola per pavidità politica e ideologica.