Tra capanne di paglia, baobab e zebù, piste sterrate e povertà indicibili, bambini che nonostante tutto riescono a sorridere, pescatori che si muovono con le caratteristiche piroghe, colori incredibili del mare e della natura, Elvira Noferini ha concluso pochi giorni fa la sua esperienza come volontaria all’Hopitaly Vezo, l’ospedale italiano di Andavadoaka, nella regione di Tulear, a sud-ovest del Madagascar. Inaugurato nel 2008 dopo l’ampliamento di un piccolo ambulatorio che una coppia di Cento di Ferrara (Sandro Pasotto, medico internista, e Rosanna Tassinari, infermiera) aveva aperto due anni prima, il piccolo ospedale è seguito dai volontari dell’associazione Amici di Ampasilava, una onlus italiana che ha fatto del Vezo un punto di riferimento per la popolazione locale, per la quale l’alternativa sanitaria è la struttura di Tulear, un ospedale distante 180 chilometri, che si coprono con tre giorni di viaggio su jeep, pick up o mezzi di fortuna come un carretto trainato dagli zebù, e dove qualsiasi prestazione è a pagamento e molto costosa. Elvira Noferini, che fra l’altro a Imola presiede l’associazione Imola contro autismo, conosce da molti anni Sandro e Rosanna e, ora che è in pensione dopo il suo impegno lavorativo all’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, ha deciso di affrontare questa esperienza. Il 24 marzo ha intrapreso il lungo viaggio: «Ci si catapulta in un mondo che non si può nemmeno immaginare – racconta – basti pensare che un premio per un bimbo che si è sottoposto a una cura o a un esame può essere un bicchiere d’acqua, quella del pozzo dell’ospedale, che è trattata e sicura, poiché l’acqua che i locali sono abituati a bere è facilmente veicolo di infezioni. Ad Andavadoaka non ci sono negozi, l’acqua minerale non esiste e se anche ci fosse costerebbe molto più del rum, di cui i malgasci – quelli che se lo possono permettere – fanno largo uso. In quelle zone si muore ancora di malaria, di tifo, di malattie diarroiche e di parto. Lo stato fornisce solo i medicinali per la malaria e la Tbc. Nel periodo della mia permanenza l’associazione ha pagato un intervento all’ospedale di Tulear a una giovane mamma in gravi condizioni, che non era possibile operare al Vezo». Come si svolge la giornata per i volontari? «Io ho lavorato in sala operatoria, dove l’attività inizia al mattino presto. Si programma tutto attentamente, sfruttando gli spazi, le attrezzature, i medicinali e il generatore di corrente in modo da non sprecare nulla. Al Vezo sono sempre presenti un paio di medici generici, due infermieri e un coordinatore e 3-4 volte l’anno arriva dall’Italia un’equipe chirurgica. Visite, interventi, farmaci e presìdi sono forniti gratuitamente alla popolazione. La lingua ufficiale è il francese, ma pochissimi la conoscono, parlano invece il loro dialetto, il vezo, dal nome del popolo presente nel sudovest del Paese, quindi ci sono anche ragazzi del posto che fungono da interpreti per rendere possibile la comunicazione con i pazienti. Poi c’è una cuoca e ci sono persone che si occupano delle manutenzioni e delle pulizie. L’Hopitaly Vezo, che serve una zona che conta circa 200mila abitanti, ha due camere da quattro letti, tre ambulatori, radiologia, ecografia e un piccolo laboratorio. Le medicine arrivano in container dall’Italia. Per i volontari c’è una casetta con camere, bagno e cucina in una piccola area recintata. Si conduce una vita estremamente spartana, che ti fa capire che noi abbiamo molte, troppe cose… Sono arrivata in un momento di caldo umido, con molti residui delle piogge in giro, e quindi molti insetti e mi sono presa la malaria, in forma fortunatamente leggera. L’ho curata con medicinali specifici e me la sono cavata in pochi giorni. Negli orari di riposo ogni tanto abbiamo fatto qualche escursione nei dintorni, in dieci minuti a piedi arrivavamo al mare, il canale di Mozambico, braccio dell’oceano indiano che separa il Madagascar dalla costa africana. In Madagascar tutto è grande, c’è una flora incredibile con alberi e piante che crescono nei luoghi più impensabili. Persino le farfalle sono enormi. L’esperienza come volontaria è stata forte e faticosa, ma la rifarei, penso quindi di tornare per un altro periodo a Andavadoaka. Sono ripartita, portando con me ricordi, immagini, odori e colori del Madagascar, il 18 giugno: il viaggio è stato lunghissimo poiché a causa di uno sciopero degli aerei ho dovuto risalire il Paese in jeep per 1.300 chilometri con due soste per la notte in alberghi locali, per poi prendere l’aereo dalla capitale, Antananarivo, e rientrare a Imola il 22 giugno scorso».