È a Providence, capitale dello stato del Rhode Island negli Usa Claudia Solacini, che lavora alla sua tesi di dottorato. Un’esperienza interessante e significativa, come lei stessa ci racconta.
«Nei progetti di una storica dell’arte che studia a Bologna, una delle più antiche università del mondo, gli Stati Uniti non comparivano tra le mete principali dove poter studiare gli artisti. Mi sono laureata in storia della tradizione classica nell’arte europea e ho approfondito le ricerche sul ritratto mitologico tra XVI e XVIII secolo: con queste premesse, devo ammettere di essere partita per gli Usa con qualche riserva e un pizzico di sufficienza, la stessa di coloro che arrivano da lontano e pensano di saperla più lunga. Ho vinto una borsa di studio per completare la mia tesi di dottorato a Providence, che dista appena un’ora di macchina da Boston: “Gent.ma dott.ssa Solacini Claudia, siamo lieti di informarla che la sua richiesta è stata accettata. Il dipartimento di Storia dell’Arte della Brown University la attende con ansia tra i membri della facoltà”.
La burocrazia necessaria per entrare negli Stati Uniti come borsista è infinita. Spesso mi sono chiesta se non costituisca un deterrente per scoraggiare i meno volenterosi e caparbi. Forse la meritocrazia si manifesta anche in questo. Sono quindi partita con molti interrogativi, combattuta tra il timore di trovarmi troppo bene – dati gli entusiasti commenti di coloro che si recano negli States per lavoro – e l’ansioso sospetto che potesse rivelarsi una perdita di tempo. Appena arrivata si è invece aperto un mondo insospettato, era come se i miei desideri e le mie aspirazioni di ricercatrice prendessero vita a poco a poco, una libera uscita dal mondo dell’immaginazione per diventare materia concreta.
L’intero campus universitario è collegato a internet in wireless, gli studenti possono usufruire dei mezzi pubblici gratuitamente e la sera si attiva un servizio shuttle che accompagna i ragazzi a casa, evitando così di dover fare lunghe camminate nel cuore della notte, soprattutto quando il rigido clima invernale non rende le passeggiate particolarmente piacevoli. La Rockefeller Library, la biblioteca che frequento abitualmente, chiude alle 2 di notte, sabato e domenica compresi: è molto rifornita e occupa una vasta superficie, consentendo una collocazione dei testi ordinata e spaziosa ed evitando lo spiacevole inconveniente di non trovare un tavolo libero per studiare. Se non riesco a reperire un testo posso richiederlo in maniera autonoma on-line e per gli studenti e lo staff universitario il prestito interbibliotecario è gratuito. Naturalmente per offrire una tale quantità di servizi sono necessari fondi adeguati: l’università è infatti molto costosa rispetto a quella italiana e le famiglie americane sono spesso costrette a indebitarsi per mantenere i figli al college. Se da un lato alcuni giovani promettenti possono essere penalizzati perché economicamente meno abbienti, dall’altro il capitale versato garantisce il perfetto funzionamento dell’attività di ricerca, libera di esprimersi perché supportata da attrezzature adeguate.
Al di là delle agevolazioni offerte dalla Brown University, che fanno comunque parte di un meccanismo di finanziamenti estremamente diverso dal nostro quindi difficilmente paragonabile, la differenza maggiore che ho riscontrato rispetto al sistema universitario italiano è racchiusa in una parola che da noi risulta pressoché sconosciuta: coinvolgimento. Sono sempre stata abituata a studiare con profitto cercando di dimostrare la mia preparazione nel corso degli esami, ma una didattica improntata al ripetitivo meccanismo che prevede la sequenza di lezioni, ore di studio ed esami porta lo studente a chiudersi, perché non è incoraggiato a cercare alcuno stimolo nel confronto con gli altri. Sono invece profondamente convinta che la discussione tra studiosi sia fondamentale per crescere come ricercatore: attraverso lo scambio di idee e opinioni bisogna armarsi di una certa dose di umiltà per mettere il proprio lavoro costantemente in discussione, ma si è anche profondamente stimolati a dare il meglio in ogni occasione per dimostrare le proprie capacità e rendere più solide le basi della propria ricerca. Le linee guida della didattica americana si fondano su un confronto serio e costruttivo, che permette una costante crescita scientifica sia ai docenti che agli studenti. Ecco, questo è l’aspetto che più mi ha colpita e che soprattutto mi mancherà quando tornerò in Italia, ahimè solamente tra un paio di mesi. La condivisione, il lavoro di squadra, la meritocrazia sono parte integrante dello stile di vita americano e sono forse gli elementi che spingono tanti italiani a trasferirsi qui, per portare avanti i propri sogni e non rassegnarsi a dover trovare lavori di ripiego.
Dal punto di vista umano mi sento fortunatissima perché sin dai primi giorni si è creato un gruppo estremamente affiatato di giovani dottorandi stranieri provenienti da ogni parte del mondo e specializzandi nelle più diverse discipline (dalla letteratura alla medicina, dalla filosofia all’economia): ci accomuna non solo la lontananza da casa, ma anche e soprattutto la passione per i nostri studi e la determinazione nel continuare a fare ricerca. Fuori dal campus, una sorta di cittadella per studenti a due passi dal centro di Providence, ho notato che lo scandirsi del tempo nella quotidianità è molto diverso dal nostro. Spesso le idee che abbiamo sullo stile di vita americano sono indotte dal cinema e dalla televisione, canale mediatico preferenziale che meglio di qualunque altro riesce a stereotipare persone, luoghi e abitudini; mi ha invece sorpresa scoprire che qui i locali notturni chiudono non più tardi delle 2 di notte e che si cena molto presto perché il pranzo, il famoso fast-food, spesso viene saltato oppure consumato in fretta. Tutto è quindi anticipato, ma alcuni studenti americani hanno amaramente constatato che non è sempre stato così: dopo il tragico 11 settembre la gente è più timorosa e preferisce rientrare la sera senza fare troppo tardi. Il sospetto dei cittadini americani verso il prossimo si concretizza in una sorta di costante stato di angoscia che non avverto solo io ma anche altri dottorandi stranieri; il non sentirsi sicuri in casa propria è un aspetto della vita quotidiana americana che mi rattrista. Nelle riviste locali si leggono spesso le lettere di ragazzi che temono di uscire la sera se non sono accompagnati, eppure il campus è circondato da quartieri residenziali estremamente tranquilli e sicuri. Mi chiedo cosa penserebbero di una città come Bologna, con i suoi caratteristici portici medievali che la sera si svuotano dai pendolari che li animano, creando infiniti angoli bui spesso scarsamente illuminati. Oltre a questa supposta diffidenza verso il prossimo, ho tuttavia incontrato persone estremamente gentili e cortesi, soprattutto nell’ambiente universitario. I docenti sono decisamente meno formali rispetto a quelli italiani e considerano gli studenti come loro pari, invitandoli a esprimere sempre pensieri e osservazioni sui lavori scientifici e insegnando loro a mettersi in gioco senza lasciarsi condizionare dalle critiche, ma anzi facendone tesoro per crescere e migliorarsi.
Sarebbe molto stimolante poter creare lo stesso ambiente di lavoro in Italia: è ovvio che ognuno ama il proprio paese e vorrebbe non doverlo abbandonare, ma quando non sussistono le condizioni per sentirsi appagati, bisogna diventare coraggiosi e affrontare l’avventura. Come scriveva sant’Agostino “il mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina”.
Claudia Solacini
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