Una collezione di figurine animate: i volti dei miei studenti che seguono le lezioni a distanza, rinchiusi nella griglia di Google-Meet. Rinchiusi è la parola giusta: hanno gli occhi dei carcerati che ti guardano da dietro le sbarre, perplessi tra disperazione e attesa. Eppure non stanno in cella, ma a casa loro: si vedono letti appena rifatti, librerie, cagnolini e gatti, veri e di peluche, cucine componibili, tavernette in stile rustico, finestre aperte su giardini (aria aperta, che bello). E allora, perché queste facce? Mi immagino studente e cerco di vederla dal loro punto di vista: non sono io ad andare a scuola, è la scuola che viene da me, che entra, irrompe in camera mia. La didattica a distanza non rispetta il privato domicilio! È un problema di spazi: l’adolescente, per diventare ogni mattina uno studente, deve uscire dalla propria zona di comfort ed entrare in un luogo diverso, radicalmente diverso, dove gli viene richiesto di prendersi delle responsabilità sue, soltanto sue, di parlare in modo diverso da come fa a casa, di entrare in rapporto con persone che non fanno parte della sua sfera di relazioni consueta: un impegno complesso, quindi, sostenibile da parte dello studente solo se la scuola e la casa restano due spazi separati. Quando il primo invade il secondo, il ragazzo rimane tale e in più si sente a disagio perché l’insegnante (io) pretende da lui un mutamento di mentalità e di comportamenti che non c’entrano nulla con i luoghi della sua quotidiana intimità. E’ qui il punto, secondo me, sul quale la didattica a distanza si dimostra fragile (impraticabile, sarebbe dir troppo): essa non riesce a trasferire l’allievo in un contesto ‘altro’, nel quale egli sia costretto a portare, con impegno e con fatica, ma anche con creatività e intelligenza, il proprio linguaggio e le proprie esperienze, per confrontarsi con parole e punti di vista nuovi. Il problema non è quindi, per l’insegnante, non cogliere i gesti degli studenti, gli sguardi, le supposte “vibrazioni emotive” che gli giungono solo in forma mediata attraverso la telecamera. Il problema consiste nel fatto, concreto, che lo studente non accede allo spazio, per così dire, dell’ ‘estraneità’ e del dialogo da costruire giorno per giorno: la scuola, il gruppo- classe, l’aula. Non si deve naturalmente giungere a conclusioni troppo definitive: le parole passano anche attraverso le piattaforme e le classroom; i materiali, il lavoro condiviso, hanno ampia cittadinanza anche nello spazio virtuale. Tuttavia, proprio perché “virtuale”, questo spazio non presenta asperità, spigoli, attriti. È immateriale, come immateriali sono le esperienze sulla Playstation. Di sicuro non ti fai male ma, se non rischi nulla di tuo, non sei veramente dentro il gioco, non sei l’esploratore di quella complicatissima isola misteriosa chiamata ‘scuola’.
Marco Marangoni,
docente Liceo Scientifico Valeriani di Imola