Un selfie in Vaticano

Pochi giorni nella calda estate di Roma scatenano sentimenti e domande a cui tentare di rispondere diventa complicato. Tra musei, chiese e gallerie la città eterna ti ruba il cuore e si prende pure il diritto di non restituirtelo. Un’immersione totale del corpo e dei sensi nella bellezza – tutta italiana – del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, senza tralasciare i fasti dell’impero romano o l’estro degli artisti contemporanei. È davanti alle tele del Caravaggio, alle sculture di Michelangelo o alle architetture del Bernini che mi sono sentito appagato; come se in quell’istante l’opera saziasse ed esaltasse al tempo stesso la richiesta di bellezza con cui ero giunto al suo cospetto. E così, davanti alla Pietà o alle Stanze vaticane, mi sono ritrovato muto. In silenzio. Incapace di aggiungere qualcosa a ciò che qualcun’altro, molti secoli prima, aveva fatto. Mi è sembrato un atteggiamento naturale, che scaturiva senza difficoltà da dentro di me. A quanto pare, il moto spontaneo appena descritto, non appartiene al pubblico che al giorno d’oggi si reca da quelle parti.
La contraddizione è netta e inquietante: da un lato alcune tra le opere più belle del mondo, dall’altro un’orda di persone totalmente fuori contesto. Non capaci di rendersi conto di che cosa hanno di fronte, del posto in cui si trovano, della storia nella quale sono immerse. E non è questione di età, di provenienza o di religione. Adulti e ragazzi, europei e indiani, tutti alla caccia di quel selfie da portare a casa ben rinchiuso nella galleria dello smartphone. Una volta scattato si può passare alla stanza successiva. Capita allora di entrare in San Pietro e vedere una schiera di turisti in posa per farsi fotografare. Oppure sulla soglia della Cappella Sistina sentire il rumore che ci potrebbe essere in piazza nei giorni di mercato. La prima reazione? Ribellione. Credo anche giustificata. Più che altro perché pensavo che la bellezza fosse un fatto oggettivo e documentabile, in grado di spalancare il cuore di qualunque uomo proveniente da qualsiasi latitudine. Se così non fosse, tale atteggiamento verrebbe ripetuto anche dopo (o durante) l’ascolto di una poesia che ti coinvolge o di un ritornello che ti rapisce. Perfino a tu per tu con le montagne temo che non sarebbero in grado di rimanere in silenzio. Non ne faccio una questione etica o morale. “Si deve” o “non si deve” fare così lo lascio dire a qualcun altro. La riflessione, però, porta ad una conclusione: la bellezza, intesa in questo senso, è sì un fatto oggettivo ma deve essere accolta. Ci deve essere qualcuno capace di lasciarsi stupire, o per lo meno interrogare, dalla grande opera che si trova ad ammirare. La cosa più bella? Non occorre avere meriti o capacità particolari, basti pensare che i grandi artisti di quell’epoca rappresentavano le scene che il popolo non riusciva a leggere in quanto analfabeta. Occorre però avere quella semplicità di cuore – che può essere educata e stimolata – tale per cui davanti alla bellezza non si può far altro che rimanere in silenzio. Esprime già tutto, una sola aggiunta sarebbe superflua.

Davide Santandrea

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